Non mi sono mai sentito un’alpinista o un ciclista e forse non mi piacerebbe neppure esserlo. Sono un semplice appassionato! La fatica e la sete di curiosità mi hanno sempre spinto a fare cose alle quali non avrei mai dato importanza.

Ora: perché mi sono esentato dallo scrivere articoli per tre anni sul blog, ve ne ho già parlato la scorsa volta (se vi siete persi l’articolo eccovi il link); ma, di come un pesce d’acqua salata divenga un “escursionista per scelta” provo a parlarvene oggi.

Quando sbarcai a Lagaro, la piccola frazione d’Appennino nella quale abito tutt’ora, avevo poco più di dieci anni. Mio padre, si era trasferito 1000 chilometri più a nord di dov’eravamo nati già da un annetto, e noi: io mia madre e mia sorella più piccola, lo abbiamo seguito. Lo strappo dalla Sicilia e dai miei nonni fu traumatico.

Nel finire degli anni ottanta, la psicologia infantile non andava ancora forte. Infondo, si trattava solamente di inventarsi una nuova vita: culturalmente un abisso più a nord, senza amici, e con quella percezione che i “quasi” padani avevano di noi altri del Sud nel periodo della Lega. Al giorno d’oggi, forse, sarei sato oggetto di studio di qualche psicoterapeuta o giù di lì, ma vent’otto anni fa, mi bastarono pochi alberi di roverella e qualche arbusto di ginepro da esplorare, scoperti di fianco casa, per farmi passare ogni malinconia marittima.

La fortuna, volle proprio che i miei genitori, scelsero una casetta di proprietà di emigrati pugliesi come prima residenza quassù. Il signor Francesco Saggese, molto probabilmente, aveva vissuto la mia stessa esperienza d’infanzia; solo 50 anni prima. Aveva lavorato per una cooperativa a Bologna tutta una vita, e con i risparmi, assieme alla moglie Pina, avevano acquistato questa casa indipendente a “Cà Vigone”. Assieme a Drago, un pastore tedesco giovane e forte, passavano i fine settimana quassù a prendere aria fresca. Gli altri giorni della settimana invece, parlavano di questo appartamento giù in città, al quartiere Pilastro.

la mia tenuta ginnica degli anni ’90

Ogni mattina, dovevo fare un chilometro e un centinaio di metri di dislivello a piedi per frequentare la quinta elementare, e potevo scegliere due percorsi. Il primo, era veloce, sicuro ed interamente su sterrato e asfalto; l’altra scelta, ricadeva sull’attraversamento di quel boschetto di fianco alla casa dei Saggese.

Negli anni novanta, i ragazzini come me, credevano ancora a Babbo Natale e a cappuccetto rosso: oggi, alla stessa età, sanno già utilizzare gli smartphone e giocano per ore ai game elettronici, ma non hanno mai visto da vicino un albero. Io, avevo scorrazzato nei boschi dei Peloritani con mio nonno “Turi”, e non avevo paura della luce cupa che quel bosco offriva perché amavo immergermi nelle acque blu profondo quando pescavo con mio zio “Carmelino” al largo di Giardini Naxos. Dunque, per me, la scelta di quel percorso mattutino era presto presa!

Mia madre mi seguiva con lo sguardo dalla finestra, fino a che la mia sagoma non scompariva dietro gli alberi: è lì, che assieme a mia sorella, cambiavo strada convincendola a scendere dal bosco. Non ne avevo mai vissuto uno da solo, e le prime volte, un po’ di timore lo soffrivo, ma l’attrazione la sentivo già!

A scuola, dicevano sempre che ero distratto e che non mi impegnavo. In realtà, scrutavo spesso le montagne fuori dalle ampie finestre della quinta elementare: semplicemente sognavo ad occhi aperti. Non vedevo l’ora arrivassero le 16 per uscire da scuola e tornare in quel bosco di fianco casa. Certo; uno studente modello, non lo sono mai stato. Lo può affermare la maestra Saura Neri delle elementari che mi riprendeva energicamente perché preferivo la finestra alla matematica, o, se lo ricorda ancora la professoressa Fernanda Vaccari che provava ad inculcarmi, a suon di 4 sul registro, la grammatica delle superiori. Volavo forte in geografia, storia, scienze ed educazione fisica; il resto non mi interessava proprio. Ogni pomeriggio, appena toccavo casa, saltavo immediatamente fuori, accompagnato dal fedele “Drago”. Stavamo ore ed ore in quei boschi a giocare con qualche legno oppure rimanevamo immobili ad osservare le miriadi di fiori nei prati. Quando iniziava a fare buio, sapevo che sarei dovuto rincasare. Fosse stato per me, sarei rimasto anche di notte là in mezzo a quegli alberi: una volta, lo chiesi proprio a mia madre.

Era uno dei pochi sabati d’autunno in cui mio padre non si spaccava la schiena a costruire case, e tutti assieme, andammo a raccogliere castagne e funghi a pochi minuti da casa. Avevamo già fatto un bel sacco, ma avevo intuito che saremmo tornati anche la mattina seguente. La mia richiesta fu spontanea e senza troppi pensieri chiesi: “lasciatemi qua, tanto domani mattina tornate e mi ritrovate.”

Gli alberi erano miei amici: giocavo con loro tutti i giorni e non mi avevano mai fatto nulla di male. Mi avevano protetto dalla pioggia, dal sole o dal vento freddo, mi avevano regalato mandorle e carrube, e mi dicevano sempre la verità sulla direzione che dovevo seguire per non perdermi da casa. La mia mente, per quella notte d’autunno, visualizzava già l’accensione di un fuoco e la cottura di alcune castagne per cena. A dormire, sarei salito su di un albero, magari sfruttando la comodità di qualche ramo concavo. Davvero! Sarei rimasto lì quella notte; ma i miei sogni furono interrotti da un secco “no” della coscienza di mia mamma.

foto della 2a media, maggio 1995

Oggi, la sete di conoscenza e la fantasia che mi frullano in testa non sono cambiate di una virgola; ho solo spostato alcuni limiti fisici e orografici di quella, che per me, rimane una continua esplorazione.

Anche se almeno una volta l’anno tornavo in Sicilia per qualche settimana, posso affermare che l’Appennino Tosco Emiliano mi abbia cresciuto. Pur non conoscendo nulla di questo terreno, pian piano mi sono fatto persuaso che fosse veramente casa mia. Vi state chiedendo se è mai arrivata la “chiamata” delle vere montagne. Sì! E’ arrivata anche quell’attrazione.

Il primo giorno che valicai il Monte delle Scalette dal lato del Lago di Brasimone, fui ammaliato dalla vista di una serie di montagne alte e ricoperte di neve bianchissima. Il sole di quella mattina, le faceva quasi risplendere nello sfondo azzurro mare che il cielo offriva quel dì. Non sapevo nemmeno che montagne fossero o come ci si potesse arrivare.

A quei tempi, mi spostavo ancora in bicicletta; non avevo l’età per la patente, e l’unico modo per estendere i confini geografici della mia esplorazione, era coprire più distanza possibile pedalando. Però, quelle montagne laggiù, sembravano fuori portata, più lontane di quanto io potessi percorrere fuori strada in un solo giorno. Non avevo mappe del CAI e non potevo nemmeno chiedere a qualcuno di accompagnarmi. L’esplorazione, la volevo sempre assaporare in solitaria. Dunque, accesi la fantasia, ed ipotizzai un fantomatico viaggio di più giorni per raggiungere quelle vette.

Erano i primi anni duemila, e di cammini, io, non ne avevo mai sentito cenno: l’unica cosa vicino casa che mi faceva viaggiare con la mente erano una serie di cartelli stradali, incrociati con mio padre, che indicavano “la strada romana”. Solo vent’anni dopo avrei viaggiato sulla storia di quella strada e dei suoi diabolici scopritori.

Ma il mio pensiero, ritornava sempre a quelle montagne bianche osservate da lassù. Dovetti però attendere un paio d’anni ancora per raggiungerle: fin tanto che patente ed automobile non mi resero indipendente negli spostamenti lunghi. Nel frattempo, avevo scoperto che si trattava della catena spartiacque appenninica: l’unico punto della nostra penisola, assieme alle Alpi, dove le correnti fredde in discesa da nord o quelle calde e umide del sud sbattono su una muraglia alta 2000 metri. Sono il Corno alle Scale ed il Monte Cimone.

Non mi ero mai trovato a fare una semplice escursione in una vera, alta e ripida montagna. Ma gli ostacoli, li ho sempre presi di petto, e preso qualche capo d’abbigliamento nell’unico negozio sportivo che c’è in paese, organizzai la mia spedizione in questo ambiente sconosciuto. Non sapevo quali fossero i sentieri, come si leggesse una cartina escursionistica, né tantomeno sapevo usare una bussola. I G.P.S. costavano una follia, e mi davano l’impressione snaturassero l’avventura: così, all’arrembaggio, decisi di salire su quei sentieri. Stranamente, fui guidato da un innato istinto di camminare verso quella vetta.

Sapevo che il fiato e le gambe non mi mancavano; correvo in bici da corsa da qualche anno, e sgambettavo su per le stradine marnose, come fossi da sempre appartenuto a quel terreno.

Poi la vetta. Un sapore di conquista d’altri tempi, mi assalì lungo tutto il corpo e pure nei meandri della mente. Nemmeno avessi fatto una vera e propria scalata alpina; “pensai fra me e me”. Non riuscivo a smettere di assaporare quel posto e quel momento. Decisi dunque, di sedermi sopra ad uno strapuntino di arenaria, proprio a pochi passi dalla grande croce che sovrasta il punto più alto di quella montagna. Da lassù, potevo osservare le nuvole da vicino, potevo vedere dall’alto tutte le altre montagne, potevo ascoltare il vento che mi sussurrava nelle orecchie, e potevo vedere l’amico mare in lontananza.

Non ho ancora dimenticato quel giorno sopra i 2000 metri, anche se tanti altri ne sono passati. Ma la testa certe cose non le scorda proprio: come uno dei tanti miei racconti che riemergono a galla man mano ripercorro alcuni posti e che vi ripropongo qui, sotto forma letteraria.

“Dedicato a mio nonno Salvatore, che la testa la possedeva più dura della mia e non ha mai avuto paura di esplorare il mondo circostante.”

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